Hanno avuto molto spazio, i commenti alla prolusione del cardinale Angelo Bagnasco, pronunciata lunedì di fronte al Consiglio permanente della CEI. Ed è consolante vedere come – a parte qualche caso – non ci si sia stracciati le vesti per una presunta “ingerenza” della Chiesa. Anzi, da più parti si è mostrato interesse per le questioni sollevate dal presidente dei vescovi italiani. L’assenza di reazioni aggressive nei confronti dei vescovi permette di ridire serenamente alcune cose sulla presenza della Chiesa nella società.
Chi ha letto per intero il testo (non sempre questa è un’abitudine di chi approva o detrae), vi trova un’analisi molto accurata – direi anche sofferta – della società italiana. Un’analisi frutto di preoccupazione, in cui vengono dette tante, tantissime cose. La stampa nei suoi titoli ne ha evidenziate alcune, quelle che più possono incuriosire i lettori: ma la lettura fatta dal cardinale Bagnasco non può essere riassunta in un titolo. È ispirata da una visione complessiva, di ordine pastorale. Ed è sostenuta, nei suoi snodi fondamentali, da una precisa visione di società e di uomo che diventa anche una prospettiva culturale. Interpretare un discorso di quel tipo come una mera indicazione elettorale, è quanto meno riduttivo, così come è riduttivo leggere gli interventi della Chiesa e dei vescovi in chiave unicamente politica (e ciò che il presidente della CEI ha ribadito nella sua regione Liguria – cioè che i valori della vita non sono selezionabili rispetto a quelli sociali – dimostra che è difficile inscatolare politicamente ogni singolo discorso pastorale). Spesso ciò accade, ma è un modo per non riflettere seriamente su alcune questioni, per non discuterne a fondo, per non prendere sul serio i problemi.
Colpisce, a questo proposito, un passaggio in cui il cardinale Angelo Bagnasco afferma di «non saper dire se la società italiana sarebbe nel suo insieme disposta ad accogliere da noi vescovi una parola, anche una sola, peraltro umile, e comunque schietta». Interessante questa domanda… che poi è seguita dal sommesso invito: «sostiamo un attimo e proviamo a pensare». “Sostare e provare a pensare”. Se solo le parole dei vescovi ottenessero questo effetto, sarebbe già tanto, per il nostro convulso paese.
Sostare e provare a pensare significa anzitutto un impegno per gli stessi cattolici: approfondire le proprie convinzioni non sulla base di slogan, ma con l’uso accurato della ragione vissuta nella fede, studiare seriamente i problemi, conoscere la ricchezza del pensiero sociale cristiano, interrogarsi ancora su chi è l’uomo e su che cosa è la giustizia: insomma, saper coltivare seriamente una prospettiva culturale ampia, consapevole, ragionevole. Non anteponendo la propria appartenenza politica a questa costruzione di un pensiero approfondito. Tale esercizio di formazione e consapevolezza, produrrà inevitabilmente appartenenze politiche sempre “critiche” (sperando, ovviamente, che questo sia consentito), le quali però saranno anche un contributo enorme alla qualità della vita e della cultura all’interno delle formazioni politiche: ciò che oggi sembra proprio mancare.
Ma i cattolici e i vescovi, non vogliono sostare e pensare da soli. È per questo che intervengono nel dibattito pubblico. Essi lo fanno con la forza delle loro convinzioni, che ritengono siano utili non solo per se stessi, ma per il buon andamento della società. Per questo la società non deve avere paura del pensiero convinto della Chiesa, anche se fosse un pensiero scomodo, come quello sull’aborto o sull’immigrazione (tanto per citare temi che più sembrano far scalpore).
In fondo, la Chiesa usa solo la forza delle parole per porgere il suo pensiero, di solito non usa parole che offendono la dignità dell’interlocutore. E i cattolici, nel cercare di tradurre in progetti politici i propri convincimenti, lo fanno rispettando lealmente le regole e le procedure democratiche: quando non hanno visto affermarsi le proprie proposte, non hanno fatto rivoluzioni o violenze. Hanno preso democraticamente atto. Ciò però non significa essere obbligati a mettere da parte le proprie convinzioni e a non portare avanti con forza la propria “proposta” culturale, reiterando la richiesta alla società intera di “sostare e pensare”, anche su quelle questioni. Tale richiesta, che venga dai vescovi o da cristiani laici, è pur sempre un’occasione in più per cercare insieme il bene della società. O no?