Il messaggio per la festa del lavoro 2011

Lavoro (a) misura di comunità

Lavoro (a) misura di Comunità
 
 «Il lavoro porta su di sé un particolare segno dell’uomo e dell’umanità, il segno di una persona operante in una comunità di persone» (Giovanni Paolo II, Laborem exercens, Prologo)
 
In occasione della Festa del Lavoro 2011 la Pastorale sociale della Diocesi di Padova, in sintonia con il vescovo mons. Antonio Mattiazzo, desidera offrire una riflessione, frutto di una presenza e di un ascolto costante del mondo del lavoro: associazioni ecclesiali (in particolare ACLI e UCID), sindacati e associazioni di categoria, istituzioni, ma soprattutto le tante persone – lavoratori e imprenditori – incontrate nell’azione pastorale quotidiana.
Le comunità cristiane con il vescovo sono state solidali in questi mesi con le famiglie e le aziende alluvionate, con le persone licenziate per scelte eticamente non accettabili di alcuni soggetti economici. Il vescovo rinnova la sua vicinanza nella preghiera a disoccupati e cassintegrati, così come ad ogni situazione di crisi che colpisca aziende e lavoratori del nostro territorio. Assicura inoltre una preghiera di suffragio per coloro che hanno drammaticamente perso la vita sul lavoro (i due recenti casi avvenuti nel Padovano ci richiamano ad uno sforzo ulteriore da compiere affinché il lavoro non sia luogo di morte).
 
A trent’anni dall’Enciclica Laborem exercens (1981)di Giovanni Paolo II, che viene beatificato per una felice coincidenza il giorno della Festa del lavoro, è utile considerare la relazione lavoro-comunitàlì evocata: il lavoro infatti è un indicatore fondamentale del grado di civiltà della comunità umana.
È necessario che il lavoro sia un’esperienza che costruisce – e non distrugge – le relazioni e la vita della comunità; che alimenti la coesione sociale e i legami, rispettando anche i tempi della comunità; d’altra parte è la comunità stessa, con le differenti responsabilità (politici, attori economici, lavoratori e tutti noi quando siamo consumatori, azionisti, ecc.) che deve generare un lavoro degno dell’uomo: si può dire infatti che la civiltà di una società si misura dalla quantità e dalla qualità del lavoro che riesce a generare e a mantenere. Una comunità avrà realistiche prospettive di sviluppo umano integrale se considera il lavoro come un bene comune, e non una merce o una variabile dipendente da sacrificare a vantaggio di altri beni (profitti, rendite azionarie e finanziarie, ecc.). Se il lavoro è un bene comune, tutti se ne devono prendere cura, e l’obiettivo deve rimanere quello che sia un bene per tutti (cioè senza sacche insopportabili di disoccupazione) e per tutto l’uomo (rispettoso cioè di ogni sua dimensione).
Per una verifica su quanto il lavoro sia considerato oggi un bene comune, vogliamo attirare l’attenzione su alcuni aspetti specifici, che interpellano diverse responsabilità etiche, anche della comunità ecclesiale.
 
1. La fatica della ripresa occupazionale tra globalizzazione e responsabilità sociali
Nel 2010 si è osservato uno scarto di 13 mila posti di lavoro rispetto al 2008; si prevede un leggero aumento dei posti nel 2011 e 2012, ma non tale da colmare il divario. Le categorie più colpite dai problemi occupazionali sono i giovani, le donne, gli over 45, gli immigrati: categorie che sono già di per sé sempre più fragili nel sistema del lavoro. Questi dati sembrano freddi, ma sono eloquenti: sono la superficie di storie di vita difficile, di speranze appese ad un filo, di dolorosa sopportazione.
Oggi non si può prescindere dalla realtà della globalizzazione per leggere questi fenomeni: non c’è dubbio che il mondo stia vivendo una sorta di riequilibrio globale della ricchezza, che chiede ai paesi ricchi una rivisitazione del proprio benessere, affinché altri paesi possano uscire dalla miseria. È necessario affrontare con decisione questo fenomeno mondiale, individuando vie strategiche per tutti (giovani, donne, immigrati, ecc.): è però eticamente doveroso evitare che a pagare, all’interno dei paesi ricchi, siano solo coloro che già sono svantaggiati. La globalizzazione, ricorda papa Benedetto XVI, è un fatto positivo, a patto che sia a misura di comunità e di persona (cfr. Caritas in Veritate, 33).
 
2. Peccati sociali e qualità delle relazioni economiche
La crisi ha provocato altri fenomeni pesanti. Aziende, anche sane, vengono sottoposte ad una pressione insostenibile: artifici burocratici, societari, economici, legali per ritardare i pagamenti; pressioni da parte di spregiudicati finanziatori che approfittano della difficoltà economica e finanziaria per strangolare le imprese; ritardi dei pagamenti da parte della stessa Pubblica amministrazione; l’usura e i tentacoli della criminalità organizzata che hanno approfittato di tutto questo anche nel nostro territorio. Tutti fenomeni che, quando si combinano con l’incertezza del diritto, divengono insopportabili.
Questi aspetti, che richiamano coloro che hanno responsabilità politiche ed economiche a trovare le soluzioni tecniche, hanno soprattutto una radice di natura morale ed etica. Alcuni fenomeni sono da considerare veri e propri peccati sociali, che minano la vita della comunità. Ma si tratta, più ampiamente, anche della natura e della qualità delle relazioni economiche, che sono pur sempre relazioni umane. Le diverse situazioni il più delle volte non sono determinate da un anonimo “sistema”: sono invece frutto di scelte personali, più o meno eticamente ispirate. Con le proprie scelte è possibile modificare il “sistema”.
 
3. Bisogno di politica
Guardando al mondo del lavoro, risalta in modo chiaro quanto bisogno di politicaci sia oggi: affinché il lavoro e l’economia siano a misura di comunità è necessario che la politica sia acuta, coerente, eticamente impeccabile, dalle visioni ampie e non schiacciata sul problema del consenso immediato. Deve essere servizio al bene comune, anche al bene comune “lavoro”. Occorre oggi domandarsi: è sufficiente che la politica si limiti a fornire una mera regolazione dei fini individuali per evitare la distruzione del corpo sociale? La storia di questi ultimi anni ci sta dicendo che questa visione minimale della politica è insufficiente a costruire comunità dove le persone possano vivere bene. In altre parole, dobbiamo ammettere che non possiamo non darci dei fini comuni: uno di questi è la tutela del lavoro, che passa anche attraverso la capacità della politica di favorire l’innovazione sociale ed economica.
 
4. Dimensione comunitaria del lavoro
La carenza di considerazione del lavoro come bene comune è confermata dal fatto che oggi è difficile aggregare le persone, in particolare i giovani, attorno al “bene” lavoro. Sembra quasi che il lavoro non sia considerato né un bene comune, né un indicatore del benessere della comunità, ma piuttosto una merce da vendere al minor prezzo possibile per battere la concorrenza; e l’attività economica d’impresa non un luogo di relazioni umane, ma una foresta nella quale difendersi da belve feroci.
Certamente oggi il lavoro chiede ai giovani un dinamismo grande (capacità di cambiare, di uscire anche dal proprio territorio per misurarsi e formarsi altrove, ecc.), ma è anche vero che è importante non perdere di vista la dimensione comunitaria che il lavoro e l’economia, per loro natura, portano con sé. In tutto questo è necessario un grande sforzo educativo, a tutti i livelli, anche della comunità cristiana.
 
5. Il compito della comunità cristiana
Affinché il lavoro venga sempre considerato un bene comune è necessario che se ne parli, che si sviluppino maggiormente una cultura e un’antropologia del lavoro.
La comunità cristiana, su questo, può ancora giocare un ruolo non piccolo. La beatificazione di Giovanni Paolo II ci rimanda a quanto questo grande Papa ha detto sul lavoro, evidenziandone le due dimensioni, oggettiva e soggettiva (cioè la dimensione materiale e tecnica e quella personale ed esistenziale) (cfr. Laborem exercens, 5 e 6). Le comunità cristiane possono essere luogo che irradia una visione alta del lavoro, promuovendo la riflessione e la condivisione su ciò che il lavoro è per l’uomo e per la vita del mondo. È importante che i cristiani parlino della vita lavorativa tra loro, nella comunità parrocchiale, nei gruppi formativi, nei centri di ascolto: per aiutarsi a portarne i pesi; per trovare forza di impegnarsi anche in modo “politico” in vista di una elevazione della qualità del lavoro e della vita economica (e non limitarsi a lottare per difendere il proprio posto e il proprio interesse); per conoscere la Buona notizia sul lavoro e farsene portatori; per stimolare la società nel suo complesso a parlare di lavoro, considerandola come un bene prezioso di cui aver cura.
La Pastorale sociale e del lavoro sta cercando anche linguaggi e percorsi nuovi per portare il messaggio antropologico cristiano sul lavoro nelle aziende, tra i lavoratori e nelle stesse comunità parrocchiali.
don Marco Cagol
Delegato vescovile per la Pastorale sociale e del lavoro della Diocesi di Padova
condividi su