Le comunità cristiane per il bene comune

Da tonioricerca.it una riflessione in vista delle elezioni regionali

“Le comunità cristiane per il bene comune”
Potrebbe essere questo il sottotitolo dell'enciclica di Benedetto XVI Caritas in Veritate pubblicata con la data del 29 giugno 2009. C'è una profonda sintonia tra l'enciclica del Papa e il programma pastorale della nostra Diocesi di Padova sul tema, appunto, del bene comune. L'enciclica e il programma pastorale costituiscono due riferimenti preziosi, anzi necessari, per capire come le comunità cristiane possono, anzi devono, porsi in relazione al bene comune, cioè al bene di tutte le persone che vivono nel territorio.

Mi permetto di mettere in fila alcuni passaggi dei due testi citati: insieme offrono non solo le motivazioni e lo stile della comunità cristiana e dei singoli cristiani di fronte al bene comune, ma indicano addirittura una metodologia ormai collaudata dall'esperienza pratica di molti cristiani e di molte comunità.
 
Non è infatti sufficiente né lamentare che i cristiani sono assenti dalla vita e dalla storia della società, né illudersi che sia sufficiente un pizzico, o molto di più, di buona volontà. La conoscenza e la frequentazione del metodo indicato dalla chiesa e dalla prassi, è una condizione necessaria per superare finalmente la cronica lontananza dei cristiani e della chiesa dai problemi della vita sociale. Qualcuno ha parlato di “afasia”, cioè della incapacità dei cristiani e della chiesa di intervenire con una parola propria. Ancor di più, oggi c'è chi reclama la estraneità della chiesa dai problemi sociali, cioè dal problema della convivenza umana, e anzi accusa la chiesa di invasione di campo quando si azzarda anche solo ad esprimere un timido parere. Quel che è più grave è che questa estraneazione della chiesa viene pretesa non solo da chi è esterno ad essa, ma addirittura viene pretesa da cristiani che fanno parte della chiesa. I mass media poi danno voce a chi vuole ridurre la chiesa “dentro le sacrestie”.
La questione non è nuova: in ogni periodo della storia e di fronte ad ogni questione vecchia o nuova che interpella i cittadini sono riemerse queste pretese, queste accuse, queste giustificazioni. La Dottrina Sociale della Chiesa (DSDC) testimonia che, ogni volta che il Magistero supremo dei Papi – da Leone XIII e Benedetto XVI – è intervenuto su problematiche sociali, ha dovuto chiarire, difendere e proclamare questa “competenza” della chiesa di fronte alla vita sociale, politica, economica ecc. come un diritto irrinunciabile.
Il problema, caso mai, è quello della correttezza di questa competenza, sia nell'enunciarla sia nell'applicarla.
Ecco allora alcuni passaggi metodologici di cui si parlava, e che ritroviamo nel documento citato di Papa Benedetto.
Il primo passaggio può essere enunciato così: la fede cristiana fondata sulla Bibbia e sul Vangelo implica necessariamente un coinvolgimento del credente e della comunità cristiana con le vicende della società, cioè delle persone reali. Dio stesso, infatti, e Gesù di Nazareth entrano nella storia, nel mondo, in mezzo alle persone e alle questioni degli uomini con la finalità di portare la salvezza. L'atteggiamento di Dio è un'incredibile e instancabile volontà di bene per l'uomo. Se la fede cristiana non matura, nelle persone e nelle comunità, la stessa volontà di bene, non sarebbe più la fede cristiana; sarebbe una ideologia. L'evasione dal mondo è quasi sempre segno e frutto di problemi psicologici delle singole persone.
Il secondo passaggio riguarda la competenza della chiesa: è una competenza di natura etica, cioè che fa riferimento al bene o al male per ogni problema, per ogni questione, per ogni proposta, istituzione, legge, sistema… La chiesa non rivendica competenze scientifiche, tecniche in relazione ai problemi sociali, politici, economici, scientifici ecc.; queste sono competenze che spettano giustamente ad altri soggetti; e la chiesa non solo le rispetta, ma le accoglie, le valorizza. Non è pensabile una parola etica, se non nel contesto di tutte le altre “parole”; ma è anche vero che tutte le competenze scientifiche, professionali, istituzionali non sono sufficienti per valutare l'impatto buono o deleterio sulla persona e sulla società. Infatti tutto ciò che costituisce la vita e la storia delle persone e delle società è frutto di scelte fatte da uomini. Anche lo sviluppo economico, anche la politica, anche la globalizzazione, anche la crisi di oggi, anche la fame e la pauperizzazione, anche l'inquinamento del pianeta (tutti temi trattati nell'enciclica) nascono da scelte fatte da uomini concreti. E ogni scelta fatta dall'uomo risponde alla valutazione “bene” o “male”, buono o cattivo. Ogni decisione o realizzazione ha bisogno di valutazioni scientifiche e tecniche, ma ha bisogno anche di valutazione etica. In caso contrario ogni realtà o decisione potrebbe rivelarsi dannosa, invece che buona e utile.
Il terzo passaggio entra in una questione difficile (e che avrebbe quindi bisogno di essere approfondita, anche con l'aiuto dell'enciclica citata): come comprendere e valutare il bene e il male? Non è forse vero che ogni “potere” stabilisce, magari implicitamente, ciò che è bene e ciò che è male, ciò che si può e si deve fare e quanto invece non si può e non si deve fare? È la questione del fondamento dell'etica; una questione che emerge di fronte ad ogni potere, ad ogni legge, ad ogni sistema e struttura sociale. Non è possibile qui entrare nella questione. Diciamo solo che la Chiesa (ma non solo la chiesa, non solo i cristiani) propone e rivendica un'etica che ha come fondamento la persona umana, nella totalità delle sue dimensioni antropologiche: da quella corporea a quella psichica, razionale, relazionale, sociale, economica… fino a quella spirituale e religiosa. Un famoso documento della DSDC ha coniato uno slogan efficace: il bene di tutto l'uomo e di tutti gli uomini. È come dire “il bene comune”.
Una qualsiasi realtà, struttura, teoria, potere politico ed economico che creasse bene-essere per un aspetto della persona e per una parte della società a danno di altri aspetti della vita e di altre componenti della società, non può essere ritenuta “etica”, ma semplicemente funzionale al potere che la esprime e la realizza. A nessuno sfugge quanto sia decisiva per tutti la questione dell'etica in ogni versante della vita, da quella personale a quella sociale e politica, per il presente e per il futuro. Da essa dipende la qualità della vita di ogni persona e, più radicalmente, la vita stessa delle persone, delle famiglie, dei popoli.
Un ultimo passaggio metodologico che riguarda la vita delle comunità cristiane. Da quanto detto appare che non solo i singoli cristiani, ma anche le comunità (dai gruppi alle parrocchie alle diocesi…) entrano nelle questioni sociali: è sempre stato così nella storia. È una questione di fedeltà alla Parola di Dio e alle parole degli uomini. Appare chiara anche la competenza specifica della chiesa e dei cristiani in ambito sociale: la competenza etica cristianamente ispirata. È questo il servizio di cui le persone e la società hanno primariamente bisogno. Emergono così due esigenze per le comunità cristiane. La prima è la costituzione di luoghi e di strumenti, di aggregazioni che nelle comunità cristiane permettono e favoriscono la lettura, la comprensione dei fatti sociali (perché coinvolgono le persone della comunità stessa) e quindi la loro valutazione e le indicazioni operative. È il famoso “metodo del discernimento comunitario”: un'arte che deve essere imparata con l'esercizio e con l'approfondimento dottrinale. Il pensiero va subito, a questo proposito, agli organismi pastorali di comunione e di corresponsabilità (i Consigli pastorali delle comunità, a tutti i livelli) e ai gruppi di formazione per i giovani e per gli adulti; come anche a tutte le associazioni di categoria). La seconda riguarda le “opere” che la comunità cristiana da sempre ha inventato per venire incontro alle necessità del proprio territorio, e che ancor oggi nascono dalla fede e dalla passione dei cristiani. Basta ricordare, per il passato, le strutture di solidarietà tra poveri e per i poveri (per i giovani, gli operari, i malati, gli indifesi…); oggi continuano a fiorire proposte, realizzazioni, strutture… in Italia e nel mondo, con grande dedizione di persone e di enti che si nutrono della vita della comunità cristiana. È importante che siano sempre strutture esemplari nel loro obiettivo, nello stile, nella prassi delle persone che le conducono, perché rispondono a criteri di autentico “bene comune”, con una particolare attenzione ai più poveri i meno garantiti della società.
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